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Il sogno di Franca

Aveva quasi dimenticato il suo nome tanto si era abituata a sentirsi chiamare con un nomignolo che le ricordava spazi aperti e libertà.

La chiamavano zingarina, perché andava in giro sempre scalza mentre i suoi abiti, poveri ma decorosi, erano sempre puliti.
Franca era una bambina di dieci anni e non giocava con le bambole e le ciotole da cucina in miniatura, come fanno tutte le bambine della sua età che imitano le madri, ma doveva accudire la sorella più piccola e cucinare per davvero.
Frequentava la terza elementare. Le piaceva cantare e scrivere temi di italiano pieni di cose e avvenimenti fantastici che la dura realtà le impediva di assaporare.
Quando portava giù in cortile la sorellina, in attesa che arrivasse sua madre dal lavoro, si metteva a cantare pezzetti di canzoni imparate dalle donne del vicinato che venivano a lavare i panni alla fonte.
La sua voce era squillante, intonata, e attirava l’attenzione delle sue amiche che smettevano di giocare tra loro per ascoltarla, mentre le lavandaie facevano da coro. Si formava una specie di teatro con tanto di scenografia, di pubblico e di palcoscenico. Lei era la protagonista.
Era l’unico svago per Franca  e mentre cantava, sentiva dentro di sé la voglia di avere una vita diversa.
Un giorno, qualcuno disse a sua madre se voleva far studiare canto alla figlia, perché sarebbe stato un vero peccato non coltivare il talento che aveva.
«Non è cosa per lei, deve rimanere a casa per aiutarmi» rispose seccamente con voce che nascondeva una punta di invidia, perché anche lei cantava bene ma era stata costretta a fare la massaia, la madre, la moglie e spaccarsi la schiena con il lavoro fuori casa.
Quella volta, Franca, provò una sensazione nuova. La remissiva obbedienza con la quale ogni giorno accettava ciò che le veniva imposto, si trasformò in ribellione e piangendo silenziosamente, odiò per un istante sua madre.
Alla maestra piaceva quella bambina dagli occhi furbi e tristi allo stesso tempo, tanto che la esortava a rendere libero il suo pensiero in ogni componimento. Così Franca poteva inventarsi storie che la facevano sognare, rendendo meno amara la sua quotidianità.
Nei suoi temi lei viveva con la sua famiglia in una casa costruita vicino alla spiaggia, circondata da cespugli di ginestre gialle che si confondevano con il sole.
La sabbia arrivava fino agli scalini del porticato e l’odore del salmastro entrava prepotentemente in ogni angolo delle stanze.
I colori dell’alba che ogni mattina correva ad ammirare prima di fare colazione, e le tinte rossastre del tramonto di ogni sera, rimanevano indelebili nella sua mente, creando un vortice di sensazioni inspiegabili per la sua età.
Era felice quando la mamma radunava tutti per la colazione che aveva preparato con cura sul grande tavolo di legno. C’erano fette di pane arrostito, burro, marmellata e tazze di latte caldo per i bambini e caffè vero per i genitori.
Franca aveva due fratelli appena più grandi di lei e una sorellina di quattro anni, con la quale ogni tanto giocava a fare la mamma.
Suo padre era un impiegato della vetreria della città e il suo lavoro ben retribuito dava la possibilità alla famiglia di vivere agiatamente.
«Franca, fai tardi a scuola!» le diceva sua madre quando, già vestita e con la cartella in mano, si incantava ad osservare i gabbiani che volteggiavano sulle onde del mare, oppure quando si divertiva a farsi accarezzare dal vento, tenendo gli occhi chiusi per qualche minuto, lasciandosi scompigliare i lunghi capelli bruni che la mamma aveva pettinato con cura.
Andava volentieri a scuola e lungo la strada cantava allegramente. Da grande, pensava, avrebbe fatto la cantante o un lavoro importante, come il suo babbo.

I quaderni e le pagine del sussidiario con tanti righi sottolineati esprimevano la sua determinazione e capacità per lo studio. I disegni e i temi proiettavano la sua fantasia. La sua voce prometteva un avvenire di successo. Ma la realtà era ben diversa.
«Signora maestra, oggi non ho potuto fare la lezione sul quaderno perché era finito e non avevo quello nuovo, però ho fatto il problema sulla carta da zucchero».
«Brava, Franca! Va bene così, l’importante è che tu continui a studiare perché hai volontà e capacità.»
Quella piccola donna di dieci anni si sentiva orgogliosa quando l’insegnante la elogiava con affetto e immaginava il suo futuro pieno di soddisfazioni.
La madre non era mai contenta di quello che Franca faceva in casa e non le risparmiava rimproveri e punizioni. Non le raccontava mai una storia, a volte stava a giorni senza rivolgerle una parola, e spesso si arrabbiava con lei per ogni banalità, come se volesse alleggerire il peso della sua frustrazione.
Franca non piangeva più ormai, e per sentire meno dolore ripeteva dentro di sé i canti delle lavandaie.
La sua maestra invece era un punto di riferimento, di appoggio morale, e la scuola, le sue compagne, la lavagna, i libri, l’odore del refettorio e le tende bianche ai finestroni della classe, le facevano dimenticare almeno per qualche ora la stanchezza dell’indigenza.
Agli inizi degli anni trenta, la vita per molte famiglie era piuttosto difficile perché il lavoro per i mariti era precario, i bambini erano più numerosi, le madri non avevano il tempo per coccolarli, la scuola non era obbligatoria e i meno abbienti non vi mandavano i figli per necessità.
Franca faceva parte di questa categoria.
Aveva due fratelli poco più grandi e una sorella di quattro anni, con la quale non “giocava a fare la mamma” ma doveva prendersene cura seriamente, per alleggerire sua madre durante i lavori domestici.
Suo padre lavorava come operaio alla vetreria della città ma da qualche mese lo avevano licenziato perché l’azienda era fallita. La disoccupazione e la difficoltà di trovare un altro lavoro lo avevano scoraggiato, tanto che finiva le sue giornate all’osteria più vicina giocando a carte e bevendo vino.
La mamma, con quattro figli, non poteva fare altro che la casalinga e andare qualche ora a servizio dalle famiglie più facoltose.
La mattina Franca andava a scuola con i compiti fatti spesso sulla carta da zucchero (allora lo zucchero si vendeva a peso, dentro una carta azzurrognola), perché non c’erano i soldi per comprare i quaderni, mangiava al refettorio scolastico organizzato per i poveri e poi di corsa a casa.
Si toglieva le scarpe ormai consumate, e a piedi nudi rimaneva per ore davanti all’uscio di casa con la sorella accanto sempre bizzosa e prepotente, rimpiangendo i giochi festosi che facevano le sue amiche nel cortile di fronte.

Era ancora una bambina, nonostante i segni di una precoce maturità si facessero vedere con il gonfiore dei piccoli seni.
Avrebbe voluto correre e saltare, giocare a nascondino, fare la mamma con le bambole.
Desiderava i bei vestiti che avevano le bambine del vicinato, le merende con il pane e prosciutto o la cioccolata, la bicicletta come quella di una sua amica, una bambola vera per la quale infilare collane con i corallini colorati.
Era stanca del nulla e mai felice, perché quando rientrava a casa doveva anche sopportare l’avvilimento della madre che lavorava per due, i continui litigi dei genitori, i rimproveri ingiusti se aveva dimenticato di fare qualche commissione.
Solo a scuola era felice e quando scriveva un tema d’italiano poteva sognare tutto ciò che non aveva o non poteva fare.
Allora si accontentava di tornare con la fantasia nella sua casa sul mare, con una famiglia perfetta e si lasciava abbagliare dal riflesso del sole sulle onde.

«Franca, non puoi più andare a scuola, perché ho trovato un altro lavoro che mi impegnerà anche la mattina e dovrai stare con tua sorella fino all’ora di pranzo!» disse un giorno sua madre, senza guardarla negli occhi.
Aveva dovuto rinunciare alla spensieratezza, ai giochi, alla libertà, ma non poteva accettare di lasciare la scuola, le sue compagne, la lavagna, i libri, l’odore del refettorio, le tende bianche ai finestroni della classe.
Ma soprattutto i temi nei quali poteva esternare le sue illusioni.
- Siamo d’estate e ho invitato le mie amiche per fare merenda sotto il portico di casa. Il mare è calmo e un leggero vento fa muovere gli arbusti delle ginestre. Il profumo della sabbia calda mi dà un senso di benessere.
Sono felice. Mia madre ha preparato tanti biscotti e mio padre inventa giochi per tutti.
Ci sono anche dei ragazzini della quinta elementare che hanno portato aranciate e cioccolatini. Non guardano noi femmine ma fanno “comunella” con i miei fratelli.
Uno mi piace tanto e vorrei che fosse il mio principe azzurro.
Non mi importa se è povero e ha le scarpe consumate, è bello!

- Ieri mio padre, ha preso un giorno di festa sul lavoro e nel pomeriggio ci ha portati tutti a fare una gita.
La mamma era bella con il suo vestito di seta leggera che aveva il colore della mimosa. Mi ha fatto le trecce ai capelli e mi ha fatto indossare un vestitino rosa e i sandali nuovi di vernice nera.
Ho portato con me la bambola preferita così ho giocato con la mia sorellina a fare le “mamme”.
Il mio babbo era allegro e ci ha comprato i gelati.
Che bella giornata! Vorrei che fossero tutte così.

- La mia mamma è una signora bella e giovane.
Non perde mai la pazienza con me e con i miei fratelli e cucina molto bene perché sta tutto il giorno a casa e alla sera ci racconta delle fiabe.
Oggi per merenda ci ha dato i panini con il prosciutto e un bicchiere di latte che Ernesto, il contadino vicino a casa, aveva appena munto dalle sue mucche.
Poi, dopo aver fatto la lezione di scuola, ho giocato fino alla sera con le mie amiche a nascondino e con le bambole.
Ho anche cantato e loro sono rimaste sedute sui gradini ad ascoltarmi fino a che la mamma mi ha chiamata per la cena.

Franca aveva dovuto lasciare la scuola senza finire la quarta elementare ed era cresciuta in fretta.
Il padre, quando non beveva, lavorava saltuariamente come muratore e portava a casa pochi soldi per sopravvivere e la madre doveva continuare a lavare conche di panni per le signore benestanti.
Lei doveva fare da madre ai suoi fratelli, da cuoca, pulire i pavimenti di mattoni rossi ormai logori di quella vecchia casa alla periferia della città e non aveva più il tempo di vivere la sua infanzia come tutti i bambini della sua età.
Non giocava, non cantava, non rideva.
Quando aveva appena compiuto quattordici anni, fu mandata a lavorare da una donna che faceva la sarta, così avrebbe imparato un mestiere che le avrebbe fatto guadagnare un po’ di soldi da portare a casa e le sarebbe servito anche per il futuro.
Con una paio di zoccoli di legno ai piedi che ogni tanto toglieva e prendeva in mano per sentire sotto di sé il calore della terra, con un pentolino di riso e una mela nella borsa e con tanta tristezza si incamminava lungo il viottolo che portava alla casa della maestra sarta.
L’unica libertà che non aveva perso era quella di immaginare la sua casa fantastica sul mare, una famiglia perfetta e sensazioni mai provate nel suo mondo reale.
Sentiva l’odore delle ginestre e del salmastro, udiva il canto stridulo dei gabbiani e assaporava panini con il prosciutto e la cioccolata.
Anche un principe azzurro sognava, mentre imparava a fare il punto a orlo. Un ragazzo che le facesse tremare il cuore e la trattasse come una regina, non importava se fosse stato povero e con i buchi sotto le scarpe...

...Ha trovato il suo principe azzurro, Franca. Povero come lei, ma ha saputo donarle quella stessa felicità che assaporava quando si lasciava accarezzare dal vento, sulla spiaggia dei suoi sogni.

FINE

 

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